Ieri ho fatto una lunga videochiacchierata con la mia amica e collega Chiara Blasi, e ci siamo confrontate sui nostri sentimenti e le nostre paure rispetto alla modalità di lavoro on line che ci è richiesta in questo periodo.

Le ho proposto di buttare giù qualcosa sul tema, e lei mi ha mandato questo breve scritto. Io lo trovo meraviglioso, perché c’è tutta la sua ironia ma traspare anche tutto l’amore che ha per la nostra professione.

Non è facile questo tempo che si dilata, non è facile questo spazio che si restringe.

Ma qui siamo. Ancora innamorate del nostro mestiere.

Barbara D’Amelio, Psicoterapeuta Siab

 

 

Lettera semiseria di una terapeuta psicocorporea (confinata) ai pazienti

Caro/a paziente, eccomi qua, a casa mia, seduta dietro una scrivania e con uno schermo davanti… cosa è successo? È successo che un’ordinanza, importante e imprescindibile, cambia il modo di incontrarci dove facciamo di solito e soprattutto come facciamo di solito, da un paio di settimane, da mesi, da anni.

Ti ho scritto un messaggio, ho riflettuto e pesato le parole per comunicarti che niente, proprio non era possibile continuare come prima. Ho cercato di farlo prima che tu mi chiedessi cosa sarebbe stato del prossimo appuntamento vista la situazione, perché era importante farti sapere che ero preparata e informata e che mi stavo preoccupando per te, per me, per la comunità. Ti ho annunciato infine che da quel momento potevamo proseguire le nostre sedute online e non ti nascondo la difficoltà ad articolare quell’espressione, perché dentro di me questa opzione si è trasformata in un frastuono di domande che sorgevano nella mia mente, in modo disordinato e senza alcuna pretesa di priorità; le mie paure inconsce (neanche troppo) si sprigionavano in tutta la loro innocenza.

 Paure? Ancora una volta? -mi dicevo – Dopo innumerevoli ore di psicoterapia? In tutte le configurazioni possibili, individuale, di coppia, famigliare, di gruppo…e di approcci diversi?

 Sì – mi rispondeva una parte di me scuotendo la testa con aria saccente, mentre loro, le domande prendevano spazio:

(la seguente lista deriva da un’esigenza di scrittura più che dall’effettivo ordine di comparsa o dall’importanza delle suddette intrusive questioni)

E se la connessione non funziona?

Se il vicino suona? – Impossibile – risponde la voce di prima – è confinato anche lui.

Se non vedo bene? Come faccio a capire come respira?

Devo dire di mettere le cuffie, io le metteró…se lui/lei non le mette? La mia voce si sentirà in tutta la stanza!

Dove guardo? Devo capire bene dove guardare altrimenti sembrerà che mi stia autocontemplando nello schermo!

Metterò alle mie spalle quel quadro dello studio…

Come sarò nello schermo?

E se i miei figli non restano sufficientemente confinati nella stanza dove li ho chiusi a chiave al piano di sotto?

E se ad un certo punto della seduta verrò presa dalla voglia irresistibile di proporre un esercizio perché so che quello, solo quello ineluttabilmente quello è il momento perfetto per farlo…e non potrò?

Cosa ne farò dei kg di frustrazione accumulati?

Setting! Setting! (Rimbalza in sottofondo nella nuvola primordiale di paure da terapeuta dematerializzata…)

E se ti verrà da piangere, io non potrò farti sentire la mia presenza attraverso il respiro e lo sguardo e non mi sentirò di dirti “lascia scorrere” senza la possibilità di starti accanto.

Lo squillo di Skype che trilla dal mio computer mi riporta nel “qui e ora”, ora del nostro primo appuntamento online al quale già sarei arrivata in ritardo (…ma a questo mi sono risposta senza l’aiuto della solita vocina).

Dunque rispondo, da dietro questo schermo mentre faccio rotolare un bastoncino di legno sotto i piedi e ogni tanto mi inarco all’indietro sullo schienale di una sedia che somiglia a quella a cui Alexander Lowen si è ispirato per il suo famoso cavalletto… perché io ci sono caro/a paziente, sono qui con tutta me stessa, ma il cavalletto bioenergetico, lui, ho dovuto lasciarlo in studio.

Ce la faremo.