È in corso a Firenze la mostra Le Tre Pietà di Michelangelo, allestita al Museo Opera del Duomo di Firenze in occasione del restauro della Pietà Bandini e aperta in concomitanza col Convegno dei Vescovi e dei Sindaci del Mediterraneo nel febbraio di quest’anno 2022. La mostra presenta la Pietà Bandini, la scultura fiorentina recentemente restaurata,  insieme a due calchi classici della Pietà vaticana e della Pietà Rondanini di Milano, e offre un’occasione straordinaria, unica, di poter ammirare insieme le tre versioni della Pietà create da Michelangelo nel corso della sua lunga vita, dalla splendida opera giovanile fino ai due progetti incompiuti dell’artista ormai anziano, realizzate già al cospetto della morte. Il dialogo tra queste tre sculture nello stesso spazio rappresenta uno dei momenti più alti della spiritualità cristiana in campo artistico, paragonabile per lo spettatore forse solo all’evento Mysterium Crucis, l’ostensione contigua dei tre crocifissi lignei di Donatello, Brunelleschi e Michelangelo nel Battistero di San Giovanni nel novembre 2012.

La Pietà della Basilica di San Pietro, realizzata dall’artista ventitreenne nel 1498-1499, a ridosso del Giubileo del 1500, è – conformemente alle istruzioni del committente – orientata al modello nordico  del Vesperbild, l’icona della Madonna seduta con in grembo il figlio morto dopo la deposizione. L’immagine di questa scena – una scena che sembra rappresentare il dolore materno archetipico – si era diffuso, con funzione devozionale, nel corso del Trecento in area germanica. Michelangelo invece “reinterpreta il tema di origine nordica in chiave antichizzante, in cui la scelta del materiale [il marmo di  Carrara, nda] e le misure sono già in sé un segnale di una scelta classica ed eroica con una netta prevalenza delle forme”.[1] Il pathos della scena favorisce l’identificazione spontanea dello spettatore con il destino umano del Cristo, in linea con il lungo processo di trasformazione della spiritualità cristiana nel corso del Medioevo. In questo processo, l’immagine del bizantino celeste imperatore Cristo Triumfator, Victor Rex, viene via via umanizzata attraverso la partecipazione individuale dei fedeli al dolore della sua passione, diventa modello di vita interiorizzato nella imitatio Cristi o anche, in termini greci, la Cristomimesi. Non a caso il libro De Imitatione Christi,  attribuito a Tommaso da Kempis, rappresenta per secoli uno dei testi più letti dal tardo Medioevo in poi, ponte importante verso l’introspezione personale tipica del soggetto moderno.[2]

Con la Pietà vaticana, Michelangelo destò giustamente lo stupore del suo tempo, e infatti è l’unica suo opera che ha voluto firmare col suo nome “come di cosa nella quale è soddisfatto e compiaciuto s’era per se medesimo”, come nota Giorgio Vasari nelle sue Vite. E ancora Vasari: “È un miracolo che un sasso, da principio senza forma alcuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formare nella carne”.

 

 

Tutt’altra atmosfera invece emana dalla Pietà fiorentina, la cosiddetta Pietà Bandini (1547-1555). La statua è composta da quattro figure – Maria madre di Gesù, Maria Maddalena, Nicodemo e Gesù – con il corpo del Cristo ora verticalmente esposto allo spettatore. Questa scultura fu pensata da un Michelangelo già ultra-settantenne come monumento funebre per la propria cappella mortuaria, e significativamente Nicodemo, il personaggio centrale dietro a Cristo, ha con tutta evidenza i tratti fisiognomici dell’artista.

Con questa particolare gestualità e con questa particolare composizione dei personaggi Michelangelo com’è stato giustamente osservato, “mette se stesso al posto prima riservato a Maria; sua è la sagoma che definisce la composizione del gruppo, e suo è il volto che sovrasta quelli del Figlio e della madre”.[3]  È una scelta sicuramente inaudita, com’è del resto è inaudito e insolito per l’epoca che uno scultore eriga una scultura a se stesso e alla propria memoria.

Un ulteriore elemento originale riguarda la stessa attività di scultura e in particolare la sua “conclusione”. Incaricato nel 1547 dal Papa Paolo III di dirigere il cantiere della Basilica di San Pietro, Michelangelo aveva poco tempo a disposizione e spesso lavorava alla sua scultura di notte, a lume di lanterna. Vasari, che gli fece una visita notturna al suo studio, menzionò anche la particolare durezza del marmo, notando dei spavilli prodotti dai colpi di scalpello. Alla fine, dopo 8 anni, “o a causa del marmo difettoso o per l’insoddisfazione per quanto aveva realizzato” (T. Verdon), Michelangelo perse la pazienza e mutilò a colpi di martello la propria statua ancora incompiuta. È a un suo collaboratore che dobbiamo la difficile riparazione del gruppo che poi venne regalato al collezionista romano Francesco Bandini.

 

 

Probabilmente però quel gesto di mutilazione – o automutilazione – ha delle ragioni più profonde di quelle suggerite, le difficoltà del marmo o l’insoddisfazione per la realizzazione artistica. Possiamo infatti ipotizzare che Michelangelo non fosse più convinto del progetto di base, dell’idea stessa della sua statua mortuaria. Lo possiamo dedurre dalla sua terza opera dedicata a questo tema, la cosiddetta Pietà Rondanini, oggi al Castello Sforzesco di Milano. Michelangelo aveva avviato questo progetto intorno al 1552-1553, mentre ancora lavorava alla Pietà precedente prima di abbandonarla incompiuta, e si è poi occupato della Pietà Rondanini quasi fino al giorno della sua morte, il 18 febbraio 1564.

Come descrive lapidariamente l’inventario redatto dopo la morte, si tratta di “una statua principiata per un Cristo e un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”. Infatti, colpisce l’aspetto fantasmatico, quasi spettrale delle due figure attaccate insieme come in una simbiosi tra chi regge e chi sta per cadere in avanti, “il corpo di Cristo attaccato a Maria come per annullarsi in lei, come per rientrare nel grembo materno”[4]. E colpisce soprattutto il fatto che la figura di Maria riprenda quella centralità che il monumento fiorentino aveva riservato al proprio autoritratto dell’artista.

 

 

Evidentemente, l’anziano Michelangelo, nelle sue profonde meditazioni sulla morte di Cristo e sulla propria morte, ha fatto un passo indietro rispetto alla configurazione e all’idea della seconda statua. L’artista ha compiuto “un processo di alienazione delle proprie vanità e ambizioni”, di “spoliazione dell’io per appartenere all’Altro”[5]. E, infatti, con la sua terza e ultima Pietà, Michelangelo torna al rapporto esclusivo Madre-Figlio, rappresentato già in maniera così esemplare nell’opera giovanile, un rapporto in cui noi psicoterapeuti riconosciamo quel primo amore che conferisce e determina il senso della vita.

Ma sono proprio i termini primo amore e rapporto esclusivo che ci riportano al profondo dolore, alla profonda ferita psichica che soggiace a queste splendidi opere. Perché Michelangelo, come del resto anche Leonardo da Vinci e lo stesso fondatore della psicoanalisi, ha vissuto nella sua infanzia il dramma delle due madri. È cresciuto sospeso tra il legame con la “vera madre” a Firenze, blood parent, e il legame con la sua balia a Settignano, milk parent, alla quale fu dato secondo le usanze del tempo quando aveva un solo mese di vita.

Non possiamo soffermarci qui sui traumi della separazione, le ferite narcisistiche e la strutturale ambivalenza affettiva che l’esistenza di due madri comporta, e che fecero piangere Sigmund Freud herzzerreißend, “in maniera straziante”, quando attraverso la sua auto-analisi si ricordò, all’età di quarant’anni, della sua balia dimenticata.[6] Resta il fatto che questa dimensione interiore di separazione ci fa ammirare ancora di più lo sforzo di questo genio volto a creare, in forma di sculture perfette, i simboli di una riconciliazione con il mondo delle madri.

 

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La mostra, in esibizione a Firenze fino al 1° agosto, sarà poi ospitata anche a Roma (in data  e luogo ancora da confermare) e dal mese di ottobre a Milano al Palazzo Reale.

 

Note

[1]  Claudio Salsi e Giovanna Mori: “Tre Pietà di Michelangelo a Firenze, a Milano e a Roma: la Rondanini del Castello Sforzesco”. In: Le Tre Pietà di Michelangelo. Non vi si pensa quanto sangue costa. A cura di Barbara Jatta, Sergio Risaliti, Claudio Salsi e Timothy Verdon, Cinisello Balsamo (Milano): Silvana Editoriale 2022, 35-39, qui a p. 35 (catalogo della mostra). Vedi anche il catalogo della mostra Vesperbild. Alle origini delle Pietà di Michelangelo. A cura di Antonio Mazzotta e Claudio Salsi, Milano: Officina Libraria 2018.

[2]  Cfr. Christoph Helferich: “L’eredità romantica nell’analisi bioenergetica”. In: Il corpo vissuto. La cura del sé nell’analisi bioenergetica. Roma: Alpes Italia 2018, 101-136.

[3]  Timothy Verdon: “Non vi si pensa quanto sangue costa. Le Tre Pietà e la concezione religiosa di Michelangelo”. In: Le Tre Pietà di Michelangelo (vedi n.1), 25-33, qui a p. 30.

[4]  Antonio Paolucci, cit. in Rita Filardi: “Sguardi novecenteschi sulle tre Pietà di Michelangelo”. In: Le Tre Pietà di Michelangelo (vedi n.1), 105-110.

[5]  Sergio Risaliti: “Rileggendo la Pietà Rondanini”. In: Le Tre Pietà di Michelangelo (vedi n.1), 75-83.

[6]  Herta E. Harsch: “Freuds Identifizierung mit Männern, die zwei Mütter hatten” [“L’identificazione di Freud con uomini che avevano due madri”]. In: Psyche. Zeitschrift für Psychoanalyse und ihre Anwendungen. 48ª annata, febbraio 1991, 124-153.