Leggere o rileggere oggi La Peste di Albert Camus (1913-1960) è un’esperienza molto strana, per non dire, con una parola cara all’autore, assurda. Perché l’opera, rappresentando l’eterna lotta dell’uomo contro “il male”, in primo luogo il destino della morte e poi i mali delle catastrofi naturali e quelli inflitti dall’uomo stesso, è concepita con un chiaro intento simbolico-allegorico, come parabola della condition humaine.

Questo farebbe pensare a un carattere a-temporale o sopra-temporale dell’opera, le cui vicende concrete figurano solo come simboli o portatori di un “vero senso” nascosto e difficile da afferrare.

Invece non si può non rimanere colpiti dalla straordinaria somiglianza e dal preciso parallelismo tra gli avvenimenti descritti in questa cronaca, pubblicata nel 1947, e le terribili vicende alle quali da qualche mese siamo esposti: dal primo apparire dei topi morenti nelle strade della città di Oran (“hanno messo in circolazione decine di migliaia di pulci che trasmettono il contagio secondo una progressione geometrica, se non lo si ferma in tempo”, p. 49[1]) ai primi veri morti; dall’iniziale incredulità degli abitanti al panico generale, dalla chiusura delle porte della città alla presa di consapevolezza che “da questo momento in poi si può dire che la peste fu cosa nostra, di tutti” (p. 51).

Ma anche tanti altri dettagli concreti rispecchiano questa somiglianza tra allora e oggi, anticipando nella fantasia narrativa la nostra esperienza attuale di più di settant’anni: la sospensione della vita commerciale (“persino il commercio era morto di peste”, p. 59) e il tramonto del turismo; l’attività degli speculatori; il social distancing nei tram (“I passeggeri, per quanto è possibile, si voltano le spalle per evitare un reciproco contagio”, p. 92); il pericolo di rivolte sociali che comportano l’istituzione del coprifuoco, e infine la triste razionalizzazione e burocratizzazione dei funerali, visto che al cimitero non c’è più posto per i troppi morti (“Quello che caratterizzava, in principio, le nostre cerimonie era la rapidità […] i malati morivano lontani dalle loro famiglie, le veglie rituali erano state proibite”, p. 134).

Certo, come maggiore differenza tra le due epidemie risalta subito la dimensione planetaria del male di oggi in cui non esiste più un territorio incontaminato e sicuro, mentre la città algerina di Oran della cronaca, con i suoi 200.000 abitanti, è sì ermeticamente chiusa dal mondo circostante, ma questo mondo rimane saldo e intatto.

Questa differenza però rende solo più inquietante la nostra esperienza, la cui fine effettiva nessuno veramente osa pronosticare (“senza memoria e senza speranza, si stabilivano nel presente”, p. 141).

Abbiamo finora sottolineato quanto questo romanzo, alla luce della nostra esperienza attuale, si riveli “realistico”; un realismo lucido che viene superato solo dalla dimensione planetaria della realtà in cui viviamo.

Credo però che ciò non tolga nulla al carattere simbolico-allegorico di quest’opera a cui accennato, che sollecita il compito dell’interpretazione.

Che cosa “insegna” questo romanzo? Di che cosa è parabola? (“Io so di scienza certa […] che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune”, p. 195).

Che cosa possiamo “imparare”, sia dalla cronaca immaginativa di allora che dagli avvenimenti di oggi, che tanto s’assomigliano?

Certamente non possiamo qui dare una risposta a queste domande; rimane compito di ogni singolo lettore immergersi in questo grande romanzo filosofico di Camus e confrontarsi con le sue tante verità.

Fatto sta che nella lotta del dottor Bernard Rieux, protagonista del romanzo e cronista degli eventi, si esprime un grande inno all’umanità. In questo senso, egli confessa laconicamente: “Essere un uomo, questo m’interessa” (p. 197).

E in questo senso decide alla fine della battaglia di redigere il racconto, “per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare” (p. 235).

Se consideriamo che Camus ha scritto questo romanzo tra il 1941 e il 1946, queste parole assumono un valore aggiunto a cui, secondo me, ancora oggi possiamo attingere.

 

[1]    Albert Camus: La peste. Trad. it. di Beniamino Dal Fabbro, ed. Tascabili Bompiani, Milano 2012.