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La vita di Luisa Parmeggiani  è stata fortemente intrecciata con quella della Siab, di cui è stata tra le fondatrici. Anche negli ultimi tempi, quando ci sentivamo per telefono, un po’ parlavamo di noi ma presto arrivava la domanda: come va la Siab? Cosa state facendo? E così le raccontavo le novità e lei poi diceva: brave, bravi, fate così tante cose…

È per questo che per ricordarla a chi la ha conosciuta e anche agli allievi che si sono avvicinati alla Siab negli ultimi anni, pubblichiamo una parte di un suo articolo, il ricordo del suo incontro con Lowen che precedette la sua formazione in analisi bioenergetica e la fondazione della Siab.

Lowen ricordò sempre Luisa e la cita nella sua autobiografia.

Luisa che ci ha lasciati il 22 luglio è stata una donna coraggiosa, generosa e piena di vita. La ricordiamo così e con tanto affetto (Rosaria Filoni).

COSI’ NACQUE LA SIAB – AMARCORD

di Luisa Parmeggiani

L’incontro con A. Lowen avvenne nella primavera del ‘76.

Arrivò all’Istituto reichiano di vegetoterapia carattero-analitica di Napoli insieme alla moglie Leslie, invitato dal gruppo dei terapeuti unanimemente desiderosi di incontrarlo. Quando si presentarono si sentì subito che erano “americani”. Vestita d’azzurro, tutta “in tinta”, ma con una sobria e disinvolta ricercatezza lei, e in camicia a quadri, senza giacca e cravatta lui. Diversi.

Un qualcosa di naturalmente sciolto e spontaneo li fece avvertire come chi sa di essere al di fuori del provincialismo e delle formalità.

Per noi che eravamo la provincia si trattava dell’America che veniva in Italia. Fu come ritrovarsi goffi, calorosamente impacciati.

L’Istituto reichiano di Napoli dimostrò la sua soddisfazione per aver promosso quella traversata oceanica e indubbiamente per Alexander Lowen si presentò l’opportunità di presentare l’analisi bioenergetica in Italia.

Il mattino successivo al suo arrivo Lowen mise alacremente i terapeuti di Napoli a conoscenza del suo programma di lavoro. Il suo metodo centrato sul “linguaggio del corpo e sul grounding”, si tradusse subito in un workshop che si protrasse per cinque giornate.

Il metodo lasciò tra lo stupito, il diffidente e l’interessato in quanto ci fu detto che si lavorava “in piedi”.

Si trattava di sedute vere e proprie e non di intrattenimento teorico-culturale, come si era potuto supporre.

Mentre i nostri stessi terapeuti erano riuniti con Lowen in una stanza dell’Istituto, quelli di noi che erano stati, o erano ancora pazienti, avrebbero fatto “esercizi bioenergetici” con la moglie Leslie, sua ispiratrice e collaboratrice che ci presentò il concetto del grounding, o radicamento a terra, in un’altra stanza.

Nella nostra analisi reichiana eravamo abituati ad una posizione supina sul lettino, e i nostri analisti avevano basato il loro intervento terapeutico sulle cinture di costrizione che legano l’energia, ma di energia che parte dal basso e soprattutto dell’importanza dei piedi, quale base su cui si fonda una buona parte dell’equilibrio psico-emotivo della persona non c’era conoscenza.

Quelli di noi che lavoravano con Leslie si sentivano elettrizzati da quella esperienza, nonostante un vago senso di tradimento nei confronti di Reich ci serpeggiasse dentro e un po’ se ne parlava, ricacciandolo subito indietro perché era troppo importante seguire quegli strani lentissimi esercizi. Ci era stato detto che non si trattava di ginnastica, ma di percezione corporea, di attenzione ai punti di energia ristagnante o bloccata, o come assente. Avvertire il corpo in tutte le sue parti. Si lavorò per quattro giorni, sia in gruppo che individualmente. Ne parlo oggi, come per un viaggio nella memoria di un periodo in cui tutto pareva poter fiorire, in cui la conoscenza aveva un sapore e l’interesse un odore e parlavano i sensi.

Accompagnava Leslie una sua allieva ed amica che in seguito divenne nostra collega, Ellen Green Gianmarini.Ellen traduceva in italiano mentre, insieme a noi, faceva gli esercizi proposti da Leslie, ma a lei ben noti dato che aveva fatto la sua analisi con Lowen. Furono ore ed ore di lavoro intervallato da Mi spiegò che si trattava di un “cavalletto”, molto utile per aprire la respirazione e, con la respirazione, quanto il corpo imprigionava.

sapienti pause. E la sera si usciva insieme alla coppia Lowen e ai terapeuti che con lui avevano lavorato, per andare a mangiare in una qualche trattoria. Ricordo le notti sprofondate in un sonno che la mattina successiva mi faceva essere di nuovo pronta per ricominciare a “lavorare sul corpo”.

A distanza di tanti anni, e con l’esperienza, debbo dire che Leslie doveva essere veramente molto brava se alla fine della giornata non ci sentivamo distrutti. Il quinto giorno Lowen volle dare una dimostrazione di lavoro, riunendo nella stessa stanza i terapeuti e i pazienti che avevano finito la loro analisi.

Seduti per terra a piedi scalzi, predisposti ad un’attenzione che in quella circostanza ci rendeva tutti uguali, ci disponemmo ad ascoltare e a seguire questo americano la cui disinvolta semplicità ci faceva avvertire più imbarazzo che agio.

La nostra timidezza e un certo impaccio di movimento non riuscivano a trarre vantaggio dall’agile scioltezza di Lowen che pareva ricavare praticità da tutto. Come del resto Leslie. Fu chiesto se qualcuno si proponeva per una seduta dimostrativa. Silenzio. Poi si fece avanti un ragazzo che conosceva molto bene la lingua avendo soggiornato negli Stati Uniti e che aveva già avuto un contatto con l’analisi bioenergetica. Qualche breve domanda e poi ebbe inizio la seduta. Lowen lasciava parlare il nostro amico mentre sembrava scoprire brani della sua storia passata di cui chiedeva conferma, ma non era magia, era contatto delicato col paziente, era attenzione concentrata, era “lettura del suo corpo”. Possibile?

Un certo vissuto che stava emergendo ci lasciò senza parole, turbati, in quanto pareva che Lowen vedesse qualcosa che andava al di là di quello che veniva detto. Era come se da quel corpo che appariva strutturato in maniera armonica trasparisse invece qualcosa che ne disconfermava l’aspetto.

L’emozione che aveva preso il nostro amico si era comunicata a noi che, in un totale silenzio, seguivamo quanto stava emergendo. La seduta ebbe fine ma nessuno parlò, neppure i terapeuti.

Parlò Lowen, di un messaggio che quel corpo gli aveva trasmesso, quasi che non fosse stata necessaria una conoscenza di certe vicende specifiche per capire dove stava la sofferenza.

Durante la giornata, chi volle proporsi fece la sua seduta di analisi bioenergetica. Mi presentai anch’io e mentre Lowen con due pollici premeva sui muscoli del massetere mi uscì un pianto a singhiozzo che mi trovò d’un tratto tra le sue braccia, mentre seduto a terra mi raccoglieva per lasciare emergere il dolore che il mio recente passato di separazione da mio marito aveva lasciato tra rabbia trattenuta e sconforto per una identità da single non ancora posseduta.

Alla fine dei cinque giorni l’Istituto W. Reich volle dare il suo saluto e il suo ringraziamento a Leslie e a Lowen invitando una compagnia teatrale che ai tempi riscuoteva successo e che in un ancora confuso senso della libertà rappresentava l’avanguardia.

Il giorno successivo Lowen e Leslie vennero a Roma e poiché non volevano pernottare in un albergo accettarono di buon grado l’invito che feci di fermarsi a casa mia. L’indomani sarebbero ritornati a New York e preferivano passare quelle ore in una casa.

La mattina, mentre Leslie e io facevamo colazione nel piccolo terrazzo Lowen tirò fuori da una valigetta di legno uno strano strumento sul quale si appoggiò con molta naturalezza riverso all’indietro.

Me lo fece provare ed ebbi la sensazione che i miei anni di analisi reichiana gemessero per sentirsi violentati. La mia spina dorsale mi disse che no, non era benefico. Verso le dieci Ezio Zucconi Mazzini venne a prenderci per portare la coppia all’aeroporto e io con piacere mi aggregai. Durante il tragitto volle presentare il caso di un suo paziente che manifestava un certo disturbo all’orecchio e nella masticazione. – Se c’è tempo – disse Lowen – quando siamo in aeroporto ti faccio vedere. In effetti arrivammo con molto anticipo. – Cerchiamo un posto appartato – propose Lowen.

Salendo al piano superiore dell’aeroporto vedemmo un piccolo corridoio tra due stanze le cui pareti di vetro erano riparate da delle veneziane. L’aeroporto di Fiumicino non era, allora, quello di oggi.

Pareva che non ci fosse nessuno. Ci sentimmo liberi.

– Stenditi a terra – disse Lowen con voce tranquilla con la consueta disinvoltura mentre si inginocchiava vicino a Ezio, disteso sul pavimento, che lo guardava fiducioso, preso dal fascino esercitato nei giorni precedenti. Incominciò una spiegazione che non afferrai dato che si stavano parlando in inglese, mentre guardavo Leslie che con il suo volto sereno seguiva quanto il marito stava facendo.

Mentre la bocca di Ezio era spalancata per permettere una pressione sul muscolo massetere interno e un timido mugolio di dolore gli faceva luccicare gli occhi imploranti, arrivò un pilota che si fermò esterrefatto di fronte a quell’inusitato spettacolo.

– He is a doctor – disse Leslie amabilmente guardandolo.

– He is a doctor – ripetei io come a rassicurarlo, mentre stavo rassicurando me stessa all’oscuro della finalità di quell’intervento.

L’ufficiale sorrise tra l’incuriosito e il divertito ed entrando nella stanza lo vedemmo mentre sollevava la veneziana indicandoci ad un’hostess ignara di quanto si stava svolgendo a due passi dal suo ufficio. Un paio di giorni dopo nella cronaca di Roma si parlava di un “levantino”, (Ezio, la cui pelle è piuttosto scura), steso a terra in un corridoio dell’aeroporto mentre un medico americano gli stava praticando una strana terapia, probabilmente in uso in America. Un paio di mesi dopo arrivò da New York la proposta di un summer program, che si sarebbe tenuto nel New Jersey per tre settimane, in cui si sarebbe fatta esperienza di analisi bioenergetica.

Aderimmo subito Ezio Zucconi Mazzini, io, Maria Luisa Aversa e Miretta Prezza e mi parve che il problema maggiore fosse quello della lingua. Quando arrivammo a New York ci ritrovammo ad un ricco ricevimento allestito in un albergo dove Lowen aveva radunato tutti coloro che erano interessati al summer program che si sarebbe tenuto in una università del New Jersey.

L’università, situata all’interno di un parco secolare con i suoi molti edifici, ci fece capire subito che non ci trovavamo in Italia.

A ciascuno di noi era stato assegnato un terapeuta con cui avrebbe fatto la sua seduta settimanale a New York.

Fu in quella circostanza, che incontrando Lowen nel suo studio per una seduta gli chiesi se era possibile fare formazione in analisi bioenergetica in un modo che non fosse quello di coloro che andavano regolarmente a New York per formarsi bioenergeticamente.

Per noi sarebbe stato impossibile, non fosse altro per la lingua. Rispose che l’avrebbe preso in considerazione.

Nei giorni successivi con Ezio nei viali del parco della università, tra un lavoro e l’altro, non si fece che parlare di questo.

Il prerequisito indispensabile richiesto da Lowen era che almeno uno di noi fosse medico in quanto l’aspetto bioenergetico della terapia riguardava anche il corpo. Ezio lo era.

Il ponte fu lanciato.

L’8 maggio 1978 in Via Manlio Gelsomini n. 26, a Roma, alla presenza del notaio Raffaele Gaudenzi, venne fondata la Società Italiana di Analisi Bioenergetica con la partecipazione dello stesso Alexander Lowen.

Il giorno stesso Lowen tenne una conferenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore con l’appoggio del prof. Leonardo Ancona, direttore dell’Istituto di Psichiatria.

In un’aula gremita di quella università l’analisi bioenergetica ebbe la sua presentazione ufficiale. Il mondo della cultura ufficiale ci aveva ascoltato.

Nostro primo leader fu Renato Monaco, uno psichiatra italo-americano di Los Angeles, affiancato da Bill White e da Jim Miller.

Naturalmente non avevamo una sede, per cui i primi incontri si fecero al Club 119 della Via Aurelia e, in seguito, alla Clinica S. Alessandro sulla Via Nomentana.

Solo alcuni anni dopo fu possibile affittare dei locali grandi abbastanza per poter svolgere le attività di formazione in via di Pietralata 126. Contemporaneamente a Milano erano partiti training paralleli.

L’attività è stata intensa. Fu tutto scorrevole? Certamente no.

Si nasce, ci si sviluppa, si cresce, importante è avere un centro, il nostro.