Anticipiamo dal prossimo numero della nostra rivista Corpo & Identità alcuni estratti  dell’intervento di Patrizia Moselli, Presidente della SIAB, all’interno di un ciclo di lezioni sul trauma.

 

Gli eventi traumatici sono stressanti ma vanno diversificati dagli interventi che riguardano gli eventi stressanti e non traumatici, poiché il trauma rappresenta una frattura, con un movimento lento, con una sintomatologia complessa e diversificata che ha bisogno di un tempo e spazio maggiori per la guarigione. I traumi possono essere fattuali o di sviluppo. I primi che sono quasi sempre traumatici, indipendentemente da chi ne è colpito, riguardano per esempio, la perdita improvvisa, l’incesto, la rapina, gli incidenti, le ferite gravi, la violenza fisica. Sono potenzialmente traumatici le esplosioni, le guerre, le sparatorie, l’attacco terroristico, le cadute, gli incidenti sul lavoro, in macchina, in moto, in aereo, i disastri naturali, i traumi secondari come per i bambini di sopravvissuti.

 

I traumi di sviluppo riguardano, invece, gli eventi che non rappresentano una minaccia di vita ma che rientrano nella sfera delle relazioni di attaccamento, come la perdita di una persona cara, l’inganno e  il tradimento da parte delle figure genitoriali, la trascuratezza, l’abuso infantile, la mancanza di consolazione, la mancanza di esperienze riparative, e gli eventi di traumatizzazione cronica che espongono a sintomi più gravi e pervasivi, come lo sviluppo di forme più complesse di dissociazione strutturale.

 

Nel trauma di sviluppo l’impotenza rende l’evento soggettivamente travolgente; penetra nell’integrità dell’essere e influenza la definizione dei confini: il confine, dunque, lo percepiamo nella mente e lo sentiamo nel corpo, così come nel trauma la mente registra l’evento e il corpo ne custodisce la memoria. Quando il confine è rigido viene interrotto un accesso fluido al rapporto interpersonale: è come se non si lasciasse entrare niente e nessuno.  Se il confine è diffuso vi è una porta aperta agli stati emotivi o inconsci, e non si ha scelta o controllo su chi o cosa entrerà. I confini sani, invece, sono come la membrana di una cellula, permeabile ma selettiva, tengono ciò che è tossico all’esterno e lasciano entrare ciò che nutre.

 

Nel corpo riscontiamo le tendenze posturali e motorie persistenti e l’emozione di dolore, paura, terrore, rabbia che sono collegate al trauma evolutivo. Per questo il corpo è sintomatico nella sua tendenza, in quanto ci riporta costantemente nella riattualizzazione del vissuto traumatico, rimasto bloccato, inconsapevole, nel tentativo di risolverlo e liberare il potenziale energetico dato da una buona regolazione e integrazione sinergica dei tre livelli cognitivo, emotivo, senso-motorio.

 

La disregolazione invece si presenta anche nella difficoltà di modulare le differenti intensità di arousal, lasciando la persona in una iper o ipo attivazione che disingaggia l’azione cognitiva ed integrativa corticale che permette di stare nello spazio della distanza critica, ossia nella finestra di tolleranza in cui è presente una arousal ottimale. Il lavoro psicoterapico è rivolto ad ampliare la finestra di tolleranza in cui diveniamo più consapevoli della nostra soglia di attivazione, del significato di questa nella nostra storia evolutiva, dei segnali somatici che la caratterizzano e delle strategie di modulazione.

 

Possiamo definire il modello psicoterapico dell’analisi bioenergetica un intervento orientato all’attaccamento e alla neurobiologia interpersonale. Tenere a mente la matrice relazionale del paziente ci permette di leggere con più fluidità i suoi personali modelli operativi interni, di osservare come le risposte del bambino all’offesa si sono registrate nel corpo e nel pensiero, evitando la caduta dell’empatia, e al contrario onorando lo sforzo alla sopravvivenza e incoraggiando all’osservazione, comprensione e proattività: il processo psicoterapico può facilitare una esperienza correttiva dell’attaccamento all’interno di una cornice di sostegno empatico, che consente di riattivare gli affetti e di modificare i modelli operativi interni.

 

Alla fine della sua vita, una persona ogni due avrà vissuto un evento ammissibile come traumatico. Una ogni dieci continuerà mortificata, prigioniera della ferita. Le altre dibattendosi, riprenderanno la vita grazie a due parole: il ‘legame’ e il ‘senso’” (Boris Cyrulnik).