“Ci sono quasi sempre la mia firma rosso sangue, nastri carminio, nastri nella mia pittura come vene color porpora? Sì. C’è tutto questo. Ma di cosa ci si spaventa, esattamente? Di ciò che non si può guardare in faccia senza scoraggiarsi, senza svenire, oppure di ciò che fa parte della nostra vita ma che si teme e si nasconde con vergogna, orrore, tabù. Ma ciò che si tenta di occultare è la rappresentazione vivente della nostra stessa vita (…) Il fatto è che vorremmo avere di noi un’immagine idealizzata, ma siamo proprio quel miscuglio di carne e sangue. Niente di più. Siamo questa meraviglia. Uno straordinario corpo in cui si imprimono tutte le ferite…” (1) Così scrive Frida Kahlo (1907-1954) nel diario redatto nei suoi ultimi dieci anni di vita, tra il 1944 e il 1954, a cui affida pensieri, poesie, sogni e disegni.

 

Ho scelto questo brano per cominciare perché mi sembra emblematico di quell’aspetto di Frida Kahlo che mi colpisce di più e rispetto al quale desidero condividere alcune riflessioni. Si tratta del corpo come carne viva, preriflessiva, pulsante, che patisce, come vedremo, lo smembramento e l’essere trafitto da parte a parte, nel nucleo centrale. Un corpo teatro del dolore ma anche del piacere. Un corpo in cui lucidità chirurgica e simbolismo vanno a braccetto. Un corpo del quale viene esperita e manifestata una consapevolezza stratificata. Un corpo di donna e per questo, in un certo senso, un corpo ancora più corpo in quanto porta in sé la matrice della carne: “E’ la prima volta, nella storia dell’arte, che una donna ha espresso con totale sincerità, scarna, e si potrebbe dire, totalmente feroce, quei fatti generali e particolari che riguardano esclusivamente la donna. La sua sincerità, che si potrebbe definire anche tenerissima e crudele, l’ha portata a fornire di certi fatti la testimonianza più incontestabile e sicura; ecco perché ha dipinto la sua nascita, il suo allattamento al seno, la sua crescita in famiglia e le sue sofferenze terribili e di ogni genere, senza esagerare o divergere mai dai fatti precisi, rimanendo realista…” (2). Così si esprime Diego Rivera (1886-1957), compagno di vita di Frida Kahlo e pittore anch’egli, famoso per i suoi murales a contenuto sociale. Con lui la nostra condivise l’atmosfera rivoluzionaria del Messico di quel periodo: “La parola chiave della mia adolescenza fu: euforia. Una fortuna: il contesto storico in cui crescevamo ci coinvolgeva, dava un senso all’energia della nostra giovinezza. Vi erano giuste cause per le quali dovevamo batterci, che ci forgiavano il carattere. (…) Tutti sentivamo in maniera precisa quanto fossimo parte integrante di una società. (…) Eravamo i figli di una rivoluzione e qualcosa di lei poggiava sulle nostre spalle…” (3). Il contesto messicano risulta essere di grande significato anche per la peculiare situazione culturale del paese latino-americano intriso delle visioni e delle pratiche precolombiane, incentrate su vissuti carnali e magici, e sull’intreccio della vita e della morte, come nella grande festa che si svolge nel giorno dei morti, in cui si indossano maschere a forma di teschi o interi scheletri fatti di canna da zucchero e decorati con colori vivaci.

 

Costretta a diciotto anni a un lungo periodo di immobilità a letto, dopo un terribile incidente stradale nel quale il suo giovane corpo in formazione era stato trafitto e spezzato, Frida Kahlo scopre la pittura grazie anche ad uno specchio fissato al soffitto del letto a baldacchino. L’incidente le provocò disagi che si protrassero per tutta la sua esistenza, sommandosi ad altri problemi di salute e agli esiti dolorosi di due aborti spontanei. Aveva appena iniziato a studiare medicina e aveva seguito le lezioni di anatomia, così poté ricollegarsi al celebre quadro di Rembrandt, La lezione di anatomia, e agli studi anatomici di grandi pittori come Leonardo, mescolandoli in modo originale con le suggestioni oniriche che le venivano dal surrealismo e con i simbolismi precolombiani. Era anche un periodo di cambiamento nei costumi e nel ruolo delle donne, e ciò era soprattutto vissuto nei circoli degli artisti, che viaggiavano e avevano contatti con altri artisti sia americani che europei. Anche per questo la sua ricerca d’identità di donna come rimescolamento creativo dei concetti di femminile e di maschile continua ad affascinare e a ispirare ancora oggi.

 

E’ da un interessante articolo scritto recentemente da uno psicoterapeuta, Riccardo Dalle Luche, intitolato Dalla pittura di Frida Kahlo ad un abbozzo di fenomenologia della carne (2018), che ho tratto lo spunto dell’esperienza corporea come vissuto della carne viva, cogliendo in questa prospettiva un aspetto importante della corporeità da esplorare bioenergeticamente. Il presente articolo costituisce l’inizio di questa esplorazione, che ritengo utile impostare riportando le modalità di rappresentazione della carne in Frida Kahlo proposte da Dalle Luche, ma in una sequenza scelta da me: mostrare organi del corpo con precisione anatomica e naturalistica in un corpo che, però, è vivo, per cui l’interno del corpo e la superficie dello stesso vengono proposti simultaneamente alla consapevolezza; mostrare gli organi interni anche in modalità dislocate e fortemente simboliche; dipingere e mostrare le parti del corpo connesse alla riproduzione della vita andando contro l’uso comune che le nasconde; dipingere la tematica dell’alimentazione carnivora con esposizione di carni sanguinolente ed informi (4).

 

Dalle Luche riporta anche alcune interessanti riflessioni dell’illustre fenomenologo Lorenzo Calvi (1930-2017), che ho avuto il privilegio di conoscere durante un suo seminario. Calvi propone di definire il vissuto della carne come stato originario, preintenzionale del corpo. I luoghi in cui emergerebbe abitualmente tale vissuto, a suo avviso, sono: il sesso, le funzioni intestinali, la malattia, l’invecchiamento, ovvero, là dove l’interiorità del corpo si affaccia alla superficie come nel cavo orale, nei genitali, in particolare nella vagina, e nell’ano. In queste zone, la profondità del corpo si apre alla dimensione intenzionale e alla dimensione relazionale, dando origine alla cosiddetta “comunione della carne”, o alla “comunanza di sangue e carne”. Nelle lacerazioni traumatiche dell’involucro cutaneo, invece, si assiste, a suo avviso, al manifestarsi di ciò che nel linguaggio comune è detta “carne viva”, proprio per metterne in risalto l’estrema sensibilità (5).

 

Secondo Dalle Luche, Frida Kalho ci coinvolge nella sua sfida incentrata sul “rendere estetico l’inestetico, visibile l’osceno, significativo l’informe, intenzionale l’inerte attraverso la rappresentazione frequente e ripetuta, impudica e assolutamente naturalistica degli organi interni, degli organi genitali, delle lacerazioni, delle fratture e delle amputazioni e, frequentissimamente, del sangue”. Tutto questo renderebbe così particolari i suoi quadri. Ma vediamo come lei stessa, pur parlando in terza persona, descrive la sua particolare esperienza corporea: “Io dico che Frida Kahlo, essere umano, ha dovuto prendere coscienza, attraverso i fatti della vita, della piena esistenza del suo corpo. Dico che Frida Kahlo, donna, ha aperto il suo corpo e ha espresso quello che vi sentiva. Ciò che provava è stato talmente violento che se non avesse tentato di circoscriverlo, identificarlo, poi ordinarlo, sarebbe potuta diventare folle, sommersa da cose e dolori che non avrebbe compreso, e affatto dominato. Io dico che murare viva la propria sofferenza è rischiare di lasciarsi divorare da lei, dall’interno, e attraverso vie oscure e insensate. Che la forza di ciò che non si esprime è implosiva, devastante, autodistruttrice. Che esprimere è cominciare a liberarsi.” (6).

 

Credo, a questo punto, che gli spunti di riflessione relativi al rapporto tra il vitalismo della nostra e il vitalismo loweniano siano evidenti, così come gli spunti relativi a un approfondimento bioenergetico della questione della carne e dei vissuti carnali, che mi ripropongo di approfondire in un futuro scritto. Concluderei, perciò, ancora con alcune parole di Frida Kahlo che definirei struggenti e che, credo, suoneranno anch’esse familiari a orecchie bioenergetiche: “Vorrei essere solo ciò che ho voglia di essere – dietro il sipario della follia: mi occuperei dei fiori tutto il giorno; dipingerei il dolore, l’amore e la tenerezza, riderei di tutto cuore dell’idiozia degli altri e tutti direbbero: poverina, è matta. Soprattutto, riderei di me. Costruirei un mondo che, finché vivessi, andrebbe d’accordo con tutti i mondi. Il giorno e l’ora o il minuto che vivrei sarebbe mio e di tutti (…) La rivoluzione è l’armonia della forma e del colore e tutto è e si muove sotto una legge: la vita. L’angoscia, il dolore, il piacere e la morte non sono nient’altro che un processo per esistere…” (7).

 

Note

(1) Dalle Luche R. e Palermo A., (2016). Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo. Milano-Udine: Mimesis, p. 139.

(2) Dalle Luche R. e Palermo A. (2016). Op. cit., p. 57.

(3) Dalle Luche R. e Palermo A. (2016), Op. cit. p. 27.

(4) Dalle Luche R., Dalla pittura di Frida Kahlo ad un abbozzo di fenomenologia della carne.  Psicopatologia fenomenologica, 21/04/2018.

(5) Dalle Luche R. (2018). Op. cit.

(6) Dalle Luche R. e Palermo A. (2016). Op. cit., p. 138.

(7) Dalle Luche R. e Palermo A. (2016). Op. cit., p. 155.