Da molti anni si è stabilito un legame di amicizia e di reciproca stima tra il noto filosofo Umberto Galimberti e la SIAB. Galimberti, infatti, è stato presente a molti convegni della nostra Società, offrendo attraverso le sue riflessioni preziosi stimoli a tutti i partecipanti.
Siamo perciò molto contenti di presentare la seguente intervista a Galimberti, sullo spaesamento che attualmente attraversiamo nell’affrontare tutte le problematiche connesse al Covid
Fonte: Corriere della Sera, 17 novembre 2020
(Per motivi redazionali abbiamo abbreviato il testo)
Che cosa sta accadendo, nel profondo delle coscienze, nel terremoto prodotto da questi mesi angosciosi?
«Nella prima parte, con il lockdown di marzo, quella che si era verificata era una sorta di angoscia. Che non è la paura, perché la paura è un ottimo meccanismo di difesa. Vedo un incendio, scappo. Ha come oggetto qualcosa di determinato. Mentre l’angoscia non ha qualcosa di nitido davanti a sé. È quello che provano i bambini quando si spegne la luce nella loro stanzetta e loro non sono ancora addormentati. La sensazione spiacevole di non avere più punti di riferimento. Sia Heidegger, sia Freud che neanche si conoscevano, o quantomeno non si erano reciprocamente letti, definiscono l’angoscia il nulla a cui agganciarsi. Durante la prima crisi l’angoscia per la minaccia costituita dal rischio del contagio — chiunque poteva infettare chiunque — ha generato angoscia e consentito, per reazione, una disciplina generalizzata. Oggi invece, dopo il rilassamento estivo, la stanchezza di essere confinati e una imprevedibile sorta di superficialità nel considerare il pericolo ci hanno fatto ripiombare nell’incubo. E la condizione allora è quella di spaesamento, non più di angoscia. Cosa dobbiamo fare, come ci dobbiamo comportare… Sabbie mobili. È un sentimento che oscilla tra il ribellismo, la rassegnazione e la disperazione non solo dei parenti di coloro che muoiono, ma anche di quelli che perdono il lavoro o chiudono il negozio o l’impresa. Ci si muove in un clima di assoluto spaesamento. Non abbiamo più il paesaggio in cui abitare la nostra vita quotidiana con una certa quiete. Abbiamo perduto la normalità del nostro vivere».
Che cosa può produrre questo spaesamento?
«Questo spaesamento finisce per invocare in qualche maniera una forte richiesta di decisionismo. E questa non è la cosa più bella in ambito democratico perché dal desiderio di decisionismo alla clonazione dell’uomo forte il passo è molto breve. Quello che si vuole è che qualcuno riesca a delimitare i confini, per costruire un paesaggio dove si possa vivere con una certa previsionalità ed una certa quiete. E lo spaesamento è una condizione psicologica abbastanza pericolosa. C’è chi invoca il dittatore illuminato, per esempio. Ma non siamo all’epoca di Federico II. E poi dov’è il dittatore illuminato? Questo sentimento attraversa anche parte della sinistra, cioè persone che non sono populiste, ma che non possono sopportare lo stato di incertezza determinato dallo spaesamento».
Il distanziamento sociale è sopportabile come condizione esistenziale?
«Io lo chiamerei distanziamento virale più che sociale, perché se cominciamo a mettere in gioco la società di relazione finisce che ci abituiamo a considerare la società come un’appendice dell’individuo. Questo è tipico della cultura cristiana, lo devo dire con chiarezza. I Greci per esempio: Aristotele diceva “Se uno entra in una comunità e pensa di poter fare a meno degli altri o è bestia o è Dio”. E di Dio dice “Forse Dio non è felice perché è monakos”. Perché è solo. Invece il cristiano ha messo in circolazione il concetto di individuo, “L’anima la si salva a livello individuale”. Ad un certo punto la società è stata percepita semplicemente come qualcosa che non deve costruire il bene comune ma, lo dice sant’Agostino, è incaricata di togliere gli impedimenti che si frappongono alla salvezza dell’anima. Quindi un lavoro solamente negativo. Nel Contratto sociale Rousseau dice che il cristiano non è un buon cittadino, lo può essere di fatto ma non di principio, perché il suo scopo è la salvezza dell’anima. Ora questa cultura dell’individuo, che non era greca ma propriamente cristiana, ha fatto sì che oggi ci si lamenti dell’individualismo, dell’egoismo, del narcisismo. In sostanza del fatto che ciascuno pensi solo a se stesso.
Per duemila anni l’Italia è stata governata da una popolazione straniera. Per questo si è introiettato e diffuso il concetto che lo Stato è il nemico, il nemico da contrastare, il nemico da far fuori. Questa cultura che permane anche dopo centocinquanta anni di unità d’Italia ha generato forme macroscopiche di individualismo. Questo spiega comportamenti non frequenti in altre democrazie: evadere le tasse, la corruzione, accedere al lavoro, dal più umile a quello più importante, attraverso le raccomandazioni. Tutto ci fa pensare che noi italiani non siamo ancora cittadini in relazione al nostro merito. Siamo ancora parenti, in funzione di una struttura sociale familistica. Da questo punto di vista la mafia è solamente la punta dell’iceberg di una cultura diffusa, nel senso che la dimensione della famiglia, quindi della conoscenza personale, della raccomandazione ha il vantaggio su tutto e su ciascuno. Non è un caso che un’infinità di giovani oggi vada all’estero per poter riuscire ad esprimere pienamente ciò per cui hanno studiato e si sono impegnati».
Si stanno recidendo una serie di fili sociali fondamentali: una persona non va più in ufficio, chiude il suo negozio, non può vedere gli altri. Che effetto può avere questo sugli individui?
«Non penso sia catastrofico, la gente vive comunque nell’ipotesi che il contagio non sarà la forma eterna della nostra convivenza. Prima o poi se ne uscirà. Certo che questa sospensione ci mette in uno stato di stand by abbastanza disagevole e non solo perché le attività vengono interrotte. Infatti le attività non sono solo produzione, lavoro, profitto, cose tutte legittime. Ma sono anche “Cosa sto facendo nella mia vita in questa sospensione?”. In quello che prima chiamavamo spaesamento?
Noi riusciamo a vivere molto spesso trascinati ma anche rassicurati nelle nostre abitudini quotidiane, e quando queste si interrompono cominciamo a chiederci chi siamo. Questa domanda sarebbe interessante se fosse davvero approfondita. Cosa siamo diventati? Siamo funzionari di apparati che quando si interrompe automaticamente perdono identità? E la nostra identità chi ce la dà? L’apparato? Conta di più il ruolo che noi abbiamo rispetto a chi siamo? Questi sono i sentimenti secondo me appena accennati nell’animo di ciascuno e poi rimossi, perché sono inquietanti. Sarebbe invece il caso che ciascuno, proprio in questa dimensione stagnante, cominciasse a pensare se la sua vita è stata quella che avrebbe voluto oppure se è delegata agli apparati che ti danno, oltre allo stipendio, anche l’identità e tutto il resto».
È difficile, oggi, il mestiere di vivere, per i giovani…
«Oggi abbiamo un’umanità molto più debole, molto più fragile, molto più incerta rispetto a quella uscita dalla Seconda guerra mondiale. Ogni generazione che ha avuto a che fare con le guerre, poi si è data da fare per la ricostruzione della società e della propria vita. E in questo ha trovato il senso, individuale e collettivo del proprio cammino. Noi siamo da settanta anni in uno stato di pace beneficiati da una cultura consumistica che accontentava ogni nostro desiderio. Ma una società disattrezzata psicologicamente per affrontare le difficoltà. Una società debole, non abituata al sacrificio, alla fatica, all’impegno, alla solidarietà. E allora è più difficile sopportare le tragedie come può essere questa. Perché siamo meno forti, molto meno forti di prima».
Cos’è in una società il trauma di una guerra o quello, come in questo momento, di una guerra senza armi? È una linea di frattura?
«La differenza è abissale. La guerra voleva dire bombe, crollo di case, parenti al fronte. Ora la guerra non è più una guerra tra due eserciti, è una minaccia generalizzata su tutto il territorio e in tutti gli strati sociali. La guerra era una cosa molto più tragica, ovviamente, di quanto non sia il contagio e di quanto non sia persino una pandemia. Inoltre la guerra era animata dalla dimensione del nemico: un nemico che si conosce e in qualche modo è visibile. Ora invece c’è l’invisibilità del nemico, una cattiva percezione di chi è il nemico. E poi c’è questa dimensione negazionista che collabora alla non visualizzazione della minaccia. Un virus non si vede, quindi chiunque può dire quello che vuole e allora nascono quei retroscena paranoici con cui si dice che questa è stata tutta un’operazione politica mondiale per tutelare particolari interessi, peraltro come sempre sconosciuti e misteriosi. Questa negazione collabora alla mancata percezione del nemico e fa sì che i nostri comportamenti non siano rigorosi, responsabili. Sono imprecisi per la scarsa percezione di dove sia e chi sia, ciò che ci fa star male».
L’altro da sé in questi mesi è al tempo stesso un bisogno e una minaccia, sentiamo il peso della solitudine però al tempo stesso, se incontriamo un altro, egli può essere la fonte della nostra malattia. Come disciplinare questa doppia dimensione dentro di sé?
«Noi ci eravamo già abbastanza allontanati dalla socializzazione con l’informatica, diciamolo chiaramente. Non avevamo bisogno del Covid, per creare un’altra forma di distanziamento. Perché da tempo molti giovani parlano attraverso il computer, molta gente lavora avendo davanti a sé non il prossimo, ma uno schermo. L’informatica ha già creato un distanziamento sociale, una comunicazione che non è guardarsi in faccia, uno di fronte all’altro. La relazione si è già diluita nella configurazione informatica che non è più un io e te, ma io e la tua rappresentazione nello schermo che sta davanti a me. Naturalmente questo lavoro a distanza, questa forma di comunicazione da lontano sono diventati paradossali in occasione della pandemia. Paradossali anche dal punto di vista didattico. Quando diciamo che la scuola può funzionare a distanza sosteniamo un desiderio, non una realtà. A distanza non si insegna, la formazione ha bisogno del rapporto degli studenti con l’insegnante, il luogo, i compagni di classe.
Improvvisamente l’uomo moderno, che viveva con un tempo organizzato, scandito e frenetico, si trova di fronte a delle praterie di ore. Quale è il modo migliore per occuparlo?
«Se uno non scappa da sé come dal peggior nemico può essere una buona occasione per cominciare a riflettere sulla propria vita. Come mi comporto in termini di affettività con i miei figli e con mia moglie o mio marito? Com’è la mia relazione con il prossimo? Questo deve essere un momento di interiorizzazione. La mia impressione è invece che la gente abbia paura di indagare se stessa e questo lo possiamo dedurre anche dal fatto che, se è vero che io sono un funzionario d’apparato dal lunedì al venerdì, il sabato e la domenica potrei usarli per leggere un libro, per vedere altri orizzonti, per assistere ad altri scenari, per capire quali sono le forme autentiche di relazione e di sentimento. Ma non va così. Il week end è una fuga all’esterno, non un viaggio all’interno. Bisognerebbe cominciare a farlo da piccoli, insegnare ai bambini a capire e gustare chi si è, cosa si fa, e che cosa si vuole fare domani nel mondo. Se questi pensieri cominciassero ad essere introdotti già dalla scuola forse ci sarebbe un modellino interiorizzato per farlo poi da adulti.
Perché vivere a propria insaputa è la cosa peggiore che possa accadere nella propria esistenza».
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