La sfera: un oggetto-madre

di Julia Cegatti e Letizia Polosecki[1]

 

 Introduzione

L’analisi bioenergetica è stata uno dei più interessanti percorsi che abbiamo seguito. Con l’aiuto dei nostri trainer, terapeuti e compagni di formazione abbiamo scoperto le nostre ferite primarie e siamo riuscite a guarire e a rafforzarci.

Lungo questo percorso, parole come grounding, vibrazione, respiro e sintonizzazione, piuttosto che puri termini tecnici applicati nel nostro lavoro, sono state l’asse intorno al quale è girato il nostro modo di vivere. Così il legame tra le sfere e la bioenergetica è emerso spontaneamente, come manifestazione di tali connessioni o insight.

Quando abbiamo iniziato il nostro training in Esferodinamia – Reorganización Postural (RP)[2], abbiamo realizzato che il contatto con la sfera apre a nuove esperienze psico-corporee. Infatti, le sfere rivelavano sensazioni ed emozioni che avevamo esplorato nel nostro lavoro come allieve e pazienti in analisi bioenergetica e che erano più difficili da incontrare senza le sfere. Attraverso la nostra comune percezione di questi processi, abbiamo iniziato a indagare la possibilità di integrare le sfere e alcuni principi di Esferodinamia RP nel campo della bioenergetica.

Alcune domande che hanno guidato la riflessione nella nostra esperienza personale e professionale nell’uso delle sfere sono state: come possiamo utilizzarle per incrementare le molteplici sfumature dei nostri sentimenti interiori? Le caratteristiche delle sfere come ci accompagnano nella costruzione di un’esperienza di bioenergetica? Come contribuiscono al lavoro clinico e alla formazione? Quali sono le qualità che i pazienti trovano nelle sfere, che consentono loro di costruire un’esperienza corporea?

Inoltre, come allievi in formazione di Esferodinamia RP, abbiamo scoperto che molti principi della Somatic Education[3], il campo al quale queste tecniche appartengono, sono in sintonia con le linee fondamentali della bioenergetica.

La Esferodinamia RP è una tecnica creata da Alma Falkenberg negli anni ottanta in Argentina. Si basa su precedenti esperienze fatte in Svizzera, in cui le sfere erano state usate per trattare disturbi neurologici e su esperienze condotte negli Stati Uniti, in cui erano state usate per studiare i pattern di movimento.

Grazie alle ricerche degli allievi di Anna Falkenberg (come Anna Lozano), questa tecnica è sempre in via di sviluppo e in continua estensione (Lozano, Cegatti, Martínez, 2012). Quello che segue è il risultato della nostra riflessione, concettualizzazione e realizzazione dell’esperienza degli ultimi cinque anni, che comprende il nostro lavoro clinico e quello da docenti, e che rimane ancora in gran parte inesplorato.

 

Biosfere

Definiamo Biosfere la specifica pratica che risulta da queste interazioni. In questa parte del lavoro cercheremo di caratterizzare il nucleo centrale delle Biosfere, basando il nostro studio sulla teoria dell’analisi bioenergetica postulata da Wilhelm Reich ed elaborata da Alexander Lowen, e su alcuni principi fondanti dell’Esferodinamia RP.

Gli assunti di base sono:

  • Corpo e mente sono un’unità.
  • Tutti i fenomeni psichici sono correlati a processi corporei.
  • Il respiro è essenziale per la produzione dell’energia corporea e la sua restrizione serve a reprimere le emozioni intollerabili.
  • L’importanza del lavoro sul tono muscolare:
  1. a) lavorare sulle tensioni muscolari croniche e aiutare ad attenuare la tensione; comprendere le loro origini e la loro funzione e liberare le emozioni trattenute;
  2. b) esplorare i vari toni muscolari come possibilità di autoregolazione attraverso il dialogo con l’ambiente. Con le sfere possiamo modulare il nostro rapporto con la gravità, facilitare il cambiamento del tono muscolare, la sua connessione col nostro peso, e il livello delle nostre tensioni.
  • Il concetto di grounding come contatto con le nostre realtà interiori ed esterne.
  • Attraverso la sfera, si possono aumentare le capacità propriocettive, dovute soprattutto alle sue possibilità di aumentare la sensibilità tattile.

Esferodinamia RP come l’analisi bioenergetica si propongono di costruire una relazione in cui non si ripeta la sequenza originale di frustrazione, ritiro energetico e risposta adattiva. L’attuale bioenergetica include inoltre il principio del bonding. Negli ultimi 35 anni, alcuni colleghi dell’Iiba (tra gli altri Robert Hilton, Robert Lewis e Guy Tonella) hanno integrato gli sviluppi del bonding primario e le relazioni oggettuali nell’analisi bioenergetica, fornendoci gli strumenti per affrontare le crescenti difficoltà del lavoro clinico in psicologia. Secondo l’analista bioenergetica Anna Krsul, “in questa prospettiva il legame tra analista e paziente è uno strumento essenziale sulla via di una trasformazione duratura” (Krsul, 2013).

In breve, è la co-creazione tra paziente e terapeuta a integrare le dimensioni del corpo, delle emozioni, dell’analisi e dei legami che mirano a dare sollievo e che inducono, attraverso cambiamenti psico-corporei, alla gioia, all’amore e a una salute vibrante, rimasti bloccati nel corso della nostra storia personale. Siamo consapevoli che queste considerazioni non tengono conto di tutte le complessità della psicoterapia né quindi della relazione tra paziente e analista; siamo soprattutto interessate a chiarire concettualmente l’importanza della sfera come strumento di lavoro clinico.

Nel corso della nostra formazione, e attraverso lo studio di molti testi diversi, abbiamo imparato come lavorare con alcune tecniche classiche come il cavalletto bioenergetico, il materasso, la racchetta da tennis e l’asciugamano (Krsul e Dosoretz, 2007). Eppure riteniamo che la sfera potrebbe rappresentare un ulteriore strumento, nuovo ed essenziale all’interno del setting terapeutico. Secondo François Dolto, facciamo ricorso alla sfera come oggetto-madre, in quanto fornisce sicurezza e amorevolezza. In questo modo le esperienze vengono vissute empaticamente e insieme alla scoperta di legami dinamici. Per dimostrare questi aspetti multidimensionali, cercheremo di descrivere in maniera sistematica alcune caratteristiche della sfera che nel nostro lavoro clinico abbiamo scoperto e che la rendono un compagno eccellente.

 

La sfera: un oggetto-madre

 Le origini della ricerca

 Nel nostro lavoro cerchiamo di esaminare quanti modi diversi ci sono per utilizzare la sfera, e a quanti modi diversi di percezione essa invita. Per chiarirci su questa domanda, abbiamo iniziato a raccogliere dati provenienti dal nostro lavoro clinico, dalla nostra esperienza di docenti, e dal nostro lavoro di ricerca.

Il nostro laboratorio biosferico è un luogo d’incontro in cui ci vediamo ogni due settimane per indagare sulle varie modalità di utilizzazione delle sfere e sul tipo di esperienze bioenergetiche che possano includerle. Sperimentiamo così in prima persona ciò che proponiamo in altri contesti e ci prendiamo tutto il tempo necessario per osservare gli effetti che queste esperienze ci inducono a sentire.

Detto per inciso, approfondiamo spesso in maniera sistematica e concettuale il nostro lavoro, attività che facilita il grounding e ci permette di comunicare ciò che viene direttamente dall’esperienza.

Con la seguente classificazione intendiamo chiarire la nostra intelaiatura concettuale. È sottinteso che nel lavoro concreto tutte queste funzioni avvengono simultaneamente e che le pratiche abbozzate rappresentano solo alcuni campioni di un’ampia gamma di possibili scelte.

 

Riempire la sfera di significati

 Il diverso uso della sfera crea percezioni ed esperienze propriocettive diverse. Sapere come usare la sfera conferisce al terapeuta un kit di strumenti per sostenere il paziente sulla via del recupero della sua energia vitale. L’esplorazione della sfera arricchisce la formazione delle esperienze somatiche del paziente.

Essendo un oggetto eccellente, la sfera facilita un bonding radicato nella fiducia, fondamento di un legame terapeutico che ispira l’apertura necessaria per avviare il processo di guarigione. Inoltre, le sue qualità permettono al terapeuta di leggere il corpo del paziente e di lavorare su tematiche come contatto, tenerezza, aggressività, assertività, nonché sessualità, area di espressione della vitalità del paziente.

La sfera facilita anche l’ascolto del modo in cui il paziente racconta la propria storia, rivelando le difese, le lotte, gli affetti e l’energia, si tratti di contrazione energetica o di espansione, di flusso energetico o della sua mancanza. Includendo il corpo del terapeuta, la sfera permette delle esperienze terapeutiche atte a far emergere le qualità di questa relazione intersoggettiva[4]: il terapeuta risuona col paziente quando le sue difese si sciolgono e quando le ferite antiche guariscono. Nei termini della bioenergetica moderna, questo implica un vero processo somatico-relazionale (Fauser, 2015).

Elenchiamo di seguito alcune qualità che abbiamo riscontrato:

Incremento dell’esperienza percettiva e propriocettiva: la plasticità della sfera aumenta la risonanza interiore con ciò che dimora nel corpo, facilitando il suo accesso alla consapevolezza. Citando le parole di un paziente, “ci fa essere toccati, e sembrerebbe che essa stessa si faccia toccare”. È permeabile ai contributi del paziente e restituisce il contatto.

Transizionale: come già detto, utilizziamo la sfera come oggetto-madre in quanto fornisce sicurezza e amorevolezza. Essa ripara esperienze precoci in cui il legame di attaccamento non è riuscito a procurare sicurezza. Abbiamo osservato che alcuni pazienti lo utilizzano come oggetto transizionale, in quanto apre la porta ad altre attività. Secondo Winnicott, i giocattoli fungono da oggetti transizionali durante lo sviluppo del bambino, mitigando le assenze in un’età molto precoce (Winnicott, 1971).

Alcuni pazienti vanno a prendere la sfera o la richiedono appena entrati nello studio. Si consentono di esprimere il loro affetto verso la sfera costruendo un legame che in qualche modo crea la libertà di richiederla o di “possederla”. Alcuni si sono addirittura spinti a darle un nome. Rimane aperta la questione se la sfera in questo senso rappresenti anche una transizione verso l’analista che poi potrà espandersi in altri tipi di legami.

Giocoso: nella nostra cultura la palla è un giocattolo che attraverso lo sport o le attività di tempo libero rimane tale fino all’età adulta. Questa carica che caratterizza “la palla” comporta la sua percezione come oggetto amichevole. Facilmente richiama la giocosità del paziente, aiutandolo a riscoprire quella gioia del gioco e della vita che gli adulti, secondo Lowen, di rado sperimentano (Lowen, 1970). In questo senso vorremo sottolineare ciò che autori come Freud e Winnicott hanno rivelato, interpretando i giochi come elemento chiave per la crescita del bambino e come argomento di cura e guarigione nel processo della ricerca di se stessi (Freud, 1929; Winnicott, 1971).

Facilita l’erogenizzazione: la sfera permette l’erogenizzazione, cioè attiva la percezione sensoriale della pelle senza il rischio di una iper-erotizzazione. Questa funzione è di enorme importanza, dando al bambino e all’adulto in terapia la possibilità di provare sensazioni di piacere. Queste fungono da fondamento per la creazione di un senso di continuità psico-corporea, un compito che inizia con la nascita, nella fase di attaccamento senso-orale (Tonella, 2013).

Contenimento: il contatto con la sfera diventa una membrana che regola gli scambi tra il dentro e il fuori. Aiuta a creare l’esperienza di un legame d’attaccamento adeguato che contiene ma non trattiene. Abbiamo perciò osservato che dopo l’esperienza del lavoro con la sfera, alcuni nostri pazienti decidono di comprarla e portarla a casa come risorsa per un contatto e un’auto-regolazione quotidiani.

 Holding: la sfera è un elemento facilitante per chi ha bisogno di sperimentare nuovamente l’holding, dovuto tanto alla mancanza, quanto alla distorsione o all’eccesso. È un oggetto che permette di connetterci, qualcosa di vitale nella riedizione di un’esperienza primaria di holding, senza l’impegno di farlo con la pelle di un’altra persona. Spostare il peso sulla sfera, atto necessario per tenerla stabile, è perciò un invito a rilassare gradualmente le tensioni muscolari. Di conseguenza, l’energia precedentemente accumulata nelle fibre meso fasciali diventa disponibile come energia vitale.

Per alcuni pazienti, l’abbandono del proprio peso sulla sfera è una delle prime esperienze di holding. Di fronte all’invito a spostare il loro peso su qualcun altro (l’analista, o il partner), tendono a rispondere: “Non sono troppo pesante per te?”; “Mi sembra di farti male”, oppure “Non mi piace essere toccato”.

Quando sono invitati a lasciar andare il loro peso sulla sfera (per esempio attraverso la flessione, vedi appendice, fig. 1), sia il paziente che l’analista possono individuare chiaramente le aree di tensione. Respirando e percependo il contatto offerto dalla sfera, i loro corpi iniziano a lasciar andare il peso. I pazienti fanno perciò commenti come “Mi sento più rilassato che mai”; “Mai mi sono sentito talmente disteso”, ecc.

A questo punto va chiarito che la resistenza ad abbandonare il proprio peso su qualcun altro è un aspetto da affrontare della storia e del presente del paziente. Noi intendiamo perciò il lavoro con la sfera come elemento che facilita la strada verso un conflitto di base, non come la sua dissoluzione. È un lavoro particolarmente utile se la resistenza è troppo rigida, o se altre tecniche possono comportare il rischio di ri-traumatizzazione.

Rendere morbido: in molte posizioni, la sfera modifica la relazione tra corpo e gravità. Portando spesso un senso di sollievo, questa inversione modifica il tono muscolare e fornisce maggiori possibilità di lavorare con muscoli impiegati nelle funzioni statiche che solitamente sono propensi all’ipertonia. Ridurre il tono muscolare in misura significativa comporta perciò una maggiore disponibilità per l’esperienza propriocettiva, e per la riduzione del dolore.

Sostegno: la sfera sostiene il movimento in quanto fulcro, incrementando le possibilità dello stretching in fuori: due punti opposti dirigono le loro forze in direzioni opposte. Nel grounding, per esempio, i piedi puntano verso il suolo, mentre l’ischio punta diagonalmente in alto. Lo stretching aiuta il paziente a superare i confini imposti dalla tensione cronica. Nonostante il tono muscolare sia attivato, è comunque aiutato dal sostegno della sfera (vedi appendice, fig. 2).

Questo tipo di lavoro si presta bene se si lavora per esempio con corpi molto rigidi, impedendo un’ulteriore contrazione dei muscoli, o anche con corpi tendenti all’ipertonia; poiché il contatto con la sfera aumenta l’esperienza propriocettiva, facilita l’attivazione del tono muscolare in certi segmenti del corpo. Ne risulta un’esperienza sia di sollievo che di libertà di movimento.

Spingere: utilizzando la sfera, il paziente può sperimentare la propria forza fisica secondo il suo tono muscolare. Questa caratteristica, molto simile alla qualità del sostegno, permette al paziente di esperire la propria forza come flusso vitale in movimento ed espansione, e il dialogo col feedback della sfera ne rivela gli effetti. Così si può osservare se tali effetti sono eccessivi, adeguati o insufficienti. I nostri pazienti hanno scoperto che questa esperienza facilita l’esplorazione di aree come le capacità psicomotorie volontarie, e la conversione con il proprio flusso energetico, o i suoi blocchi (vedi appendice, fig. 3).

Plasticità: la quantità d’aria usata per gonfiare il pallone dipende dal tipo di lavoro che si fa e dalle caratteristiche psico-fisiche del paziente. In questo senso, è importante notare che un pallone ben gonfio offre una maggiore resistenza, la superficie di contatto col suolo è minore, si muove più velocemente e richiede maggiore controllo dei riflessi. Una sfera meno gonfia ha una superficie più grande in contatto con il suolo, si muove più lentamente e richiede uno sforzo minore per mantenere il controllo.

Le sfere possono assumere i vari “toni” del legame d’attaccamento primario: se è troppo “rigido”, respinge la persona ed è più difficile mantenere il contatto. Se è troppo “morbido”, non fornisce holding e trasmette una percezione di sgretolamento. È molto interessante osservare questo dialogo tra paziente e sfera per comprendere quale tono è quello più adatto in questo momento specifico della vita del paziente.

Permette il movimento: nel dialogo con la sfera, il paziente può muoversi spostando il proprio peso. Azioni come cercare di trovare un equilibrio, scivolare o rimbalzare aiutano il sistema nervoso centrale a imparare in maniera efficiente (Grabner, 2014). L’instabilità, essendo una caratteristica del lavoro con la sfera, sfida i pattern abituali del sistema nervoso centrale. Questo tipo di lavoro aiuta a esplorare le risorse del paziente in campi come l’auto-regolazione e l’acquisizione di risorse che forniscono sicurezza, nonché il concetto di equilibrio come ricerca continua piuttosto che stato definitivo.

Volume: la sfera procura un senso di “contenimento”, causando così la percezione di un confine e di un mondo interiore. Una sfera più grande dà ai pazienti la possibilità di sperimentare un contatto con un volume simile al proprio. Le sfere più piccole si utilizzano per un lavoro più mirato; esse aiutano a raggiungere aree di tensioni croniche acute.

Consistenza: abbiamo notato che le qualità della sfera vengono percepite integralmente. Mario Di Santo chiama questa modalità di percezione sensibilità tattile, definendola come modalità che connette il senso del tocco con altri sensi, soprattutto la vista e l’ascolto (Di Santo, 2012). La caratteristica del suo materiale ruvido e sottile la fa facilmente sentire per il paziente come pelle.

Temperatura: la sfera adotta la temperatura del corpo. Come la consistenza, anche la temperatura contribuisce alla sensazione di un contatto pelle a pelle.

Peso: il peso delle sfere più grandi facilita un’esperienza in cui il tono muscolare viene caricato e attivato. L’esperienza della carica dà al paziente informazioni su ciò che può o non può tollerare e sulle risorse di cui ha bisogno per resistere e contenere la propria carica energetica (vedi allegato, fig. 5).

Volume della sfera: le sfere vengono prodotte in varie dimensioni, in modo da poter essere adattate ai bisogni terapeutici del paziente e alla sua misura. Solitamente utilizziamo sfere con un diametro dai 20 agli 85 cm. Nel caso di sfere più grandi, si può scoprire la misura giusta insieme al paziente seduto su essa, con le ginocchia e l’anca allineate alla forma di angolo di 90° (vedi allegato, fig. 4).

Il lavoro si svolge individualmente, a coppie o in gruppi.

 

Esperienze cliniche

Nelle esperienze che seguono vorremo descrivere come utilizziamo le sfere nella pratica clinica. I fatti che raccontiamo sono reali ed entrambi i casi clinici vanno ancora avanti; con l’arrivo di nuovi dati, il nostro resoconto dovrà dunque variare.

Caso 1

M (21 anni) arriva per un colloquio. È molto magra, ha i capelli corti e sembra un ragazzino. Dopo poco si mette a piangere, cosicché parlare le diventa più difficile. Più avanti nel tempo scoprirò che questa reazione è frequente in lei e che si calma, trovando una regolazione, quando trova sostegno nel nostro reciproco sguardo.

Viene al colloquio per una serie di episodi quasi quotidiani di forte ansia e angoscia che le fanno sentire di “uscire” dal proprio corpo e che le provocano “sensazioni spiacevoli nella testa”, difficili da superare. Di solito era abbattuta dalla spossatezza e finiva esausta.

Avendo lasciato la casa della madre all’età di 19 anni, aveva convissuto col suo ragazzo per due anni. Lavorava sporadicamente come fotografa e non studiava. Nel suo abbondante tempo libero, questo fatto costituiva fonte di grande preoccupazione, causando ulteriore ansia. I suoi genitori si erano separati quando aveva otto anni. Sua madre è stata in cura psichiatrica per più di 10 anni. Ma racconta che la madre è una pill popper, una consumatrice di pillole, fatto che impedisce la comunicazione, ed è dunque le è impossibile trovare nella madre un sostegno.

M era sempre in allarme per gli stati d’animo incontrollati della madre, che la spingevano a chiamare sua figlia in qualsiasi ora del giorno con richieste d’attenzione che lasciavano M in uno stato confuso di odio e colpa, con conseguenti episodi di forte angoscia.

M di solito arrivava a studio con un sorriso che cambiava in singhiozzo appena seduta o distesa sul divano. Per la sua difficoltà a far uscire le parole, tutto andava lentamente, e occorreva un’intera seduta per riuscire a capire insieme il motivo di una tale angoscia. Avendo il suo corpo la tendenza ad andare in pezzi, ogni seduta iniziava con lei distesa. Io chiamavo a voce alta le parti del suo corpo, e lei, ascoltando la mia voce, le riempiva di sensazioni. In questo senso la sfera era – ed è sempre – una grande compagnia per noi due. Sdraiata percorreva la longitudine del suo corpo, utilizzando una sfera di misura media (50 cm.) e semivuota, marcando i confini del suo corpo per raccontare sensorialmente il suo interno dall’esterno (vedi allegato, fig. 6).

M amava chiamare questo momento “ritornare a me stessa”. Potevo osservare (e lei lo sentiva) come la sua pallida pelle diventava rosa e come i suoi arti si riscaldavano. Via via riusciva a lavorare su strati muscolari più profondi. Sdraiata prona e con le gambe che formavano un angolo retto, spingeva la sfera grande (80 cm.) che offriva resistenza (vedi allegato, fig. 7) contro il muro con la pianta dei piedi. Durante questo processo, anche la sua voce usciva inizialmente quasi inaudibile, poi sempre più chiara, apparendo e scomparendo a turno.

In altri momenti si alzava per tenere una sfera di misura media sul petto, premendola verso di sé utilizzando i muscoli delle braccia, con la mascella portata in avanti e un po’ di rabbia iniziava a venire fuori (vedi allegato, fig. 3). A volte, quando si attivavano vissuti connessi al tono affettivo della rabbia, rapidamente collassava dicendo “non ho più forza”, o “non sono più arrabbiata”, dimostrando così la sua resistenza. Quando il nostro legame diventò una base sicura, l’incoraggiavo a stare in queste discomfort zones legate alla rabbia.

“Scappare” era una delle sue difese più consuete, ma col passare del tempo diventava improduttivo. Perciò era molto interessante osservare ciò che nel corso di questi tre anni succedeva rispetto al grounding. Inizialmente abbandonava nel giro di pochi secondi la posizione di grounding – perché percependoli appena, non poteva sopportare una sensazione più intensa nei piedi. Quando ho notato questa difficoltà, le ho offerto di farlo con una palla semi-gonfia di medie dimensioni sull’anca anteriore, in modo che, mentre rilasciava la parte superiore del corpo verso il basso, la pancia si appoggiava sulla palla, che a sua volta rimaneva tra la pancia e le cosce (vedi allegato, fig. 8).

In questa maniera, il peso dei suoi organi veniva abbandonato sulla sfera, aumentando il suo sostegno e nello stesso tempo incrementando l’esperienza propriocettiva di una pelvi più sciolta che funge da connessione col suolo. M gradualmente avrebbe prolungato questa sensazione sempre più a lungo. Ora si gode la sua connessione col suolo, abbandonando il peso della testa e del tronco, sostenuta solo da piedi e gambe.

Inizialmente, a causa di questa tendenza a “scappare”, avevo fatto una diagnosi di disturbo schizoide. Quelle “sensazioni spiacevoli nella testa” la separavano dal corpo, trattenendo e mettendo sotto sforzo il collo. Dedicavamo delle sedute intere a questo anello di tensione. M si sdraiava a faccia in su e io mettevo una sfera piccola (20 cm.) sotto le vertebre cervicali, in modo che il cranio, per la stabile sensazione di holding, potesse dolcemente abbandonare il suo peso al suolo. Facendo piccoli movimenti laterali e in alto e in basso, e alternando questi movimenti con momenti di riposo, M cominciava a realizzare che era più integrata. Altri pazienti hanno dato un simile feedback a seguito di questa esperienza (vedi allegato, fig. 9).

A metà del nostro primo anno le suggerii di consultare uno psichiatra. Sostenere la vita quotidiana le risultava molto difficile, e sentivo che da sola non potevo aiutarla a superare queste difficoltà, in quanto due incontri settimanali non sarebbero bastati. M reagì all’inizio con paura e rifiuto. Temeva di “diventare” sua madre, e per questo motivo anche solo parlare di psicofarmaci evocava nella sua immaginazione questa fantasia di identificazione. Comunque, grazie alla sua fiducia in me siamo riusciti a includere lo psichiatra nel nostro team. Abbiamo lavorato insieme per quasi un anno. Dopo sei mesi di trattamento, il dosaggio dei farmaci (un mix di antidepressivi e ansiolitici) fu gradualmente ridotto al punto di non averne più bisogno. A questo punto potevamo lavorare a un passo diverso.

Via via la presenza di sua madre nelle nostre sedute diminuiva, e altri temi e possibilità emergevano. Sua madre continuava a pretendere la sua disponibilità, ma M ora era più forte nell’affrontare la situazione e sapeva rifiutarsi. Era sempre meno spaventata dalla propria rabbia e tollerando una carica più forte all’interno dei propri confini, riusciva a esprimere in maniera sicura i suoi impulsi di violenza. In questo senso, anziché sfidarmi direttamente, la mediazione della sfera si è rivelata molto utile. Essendo grande e morbida, la possibilità di colpire e di calciare la sfera senza ferire se stessa o me, è stata di particolare aiuto lungo la strada dell’espressione delle proprie emozioni (vedi allegato, fig. 10).

Ogni tanto appaiono ancora segni di meccanismi schizoidi, quando si presenta qualche elemento di disintegrazione di divisione. Comunque sia, la sua lotta per mantenere un sé integrato senza confondersi con gli altri e le sue difficoltà a mettere confini, a contenere la carica e a rimanere grounded – insomma la sua difficoltà ad abitare il proprio corpo e il proprio presente – mi fanno incline alla diagnosi di personalità borderline.

Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo finora affrontato, M ha fatto un cambiamento a 360°. I suoi muscoli sono più tonici, cammina in maniera più decisa e il tono della sua voce è più profondo. Nel frattempo ha iniziato un corso di Yoga e di Astrologia, ha un lavoro fisso e si è separata amichevolmente dal suo ragazzo. Ha osato traslocare da un’amica, e poiché la coabitazione non funzionava, ha preso l’iniziativa di trovarsi una casa e di vivere da sola. Quando l’ho incontrata era una bambina senza risorse, e ora vedo una donna indipendente che può badare a se stessa, ed è anche in grado di chiedere aiuto quando ne ha bisogno. A volte ci vediamo ancora ogni settimana e a volte, come in questo periodo, ci incontriamo ogni due settimane. Può venire e andarsene dalle sedute come le piace, e può venire e andarsene perciò dal legame.

 

Caso 2

 F arriva al primo colloquio dopo un’esperienza di bioenergetica e di classi di Esferodinamia. Sapendo che lavoravo con le sfere, si è procurata il mio numero telefonico dall’Iiba perché era interessata a un processo terapeutico che avrebbe impiegato tali strumenti. Durante il primo incontro osservai che la ventiseienne F era molto snella, di media statura e sensuale. Il suo viso variava molte espressioni e si mordeva e si toccava la bocca ripetutamente. Parlava a voce molto alta. Il tono della voce sembrava compensare la mancanza di tono muscolare: nonostante il suo corpo sembrasse carico, stava seduta sulla poltrona come se stesse per sbriciolarsi. Il suo sguardo era affamato di contatto, ma nello stesso tempo le era difficile mantenere il contatto oculare con me. A livello emotivo sembrava turbata dalla sua incapacità di rompere definitivamente il rapporto con il ragazzo precedente. Chiedeva aiuto per “chiudere la relazione”.

Durante il nostro primo anno di terapia ho realizzato che F cercava di stabilire un contatto con me, ma non si fidava pienamente della terapia. Era come se sospettasse di poter essere in qualche maniera ingannata. Forse temeva che avrei potuto rinunciare al mio ruolo da terapeuta, per stabilire una relazione con lei, come le era successo con un terapeuta precedente. Sospettavo che questo la facesse pensare a una certa “illegalità” o promiscuità, un tratto presente in alcune delle sue attuali relazioni. Nel corso della terapia emerse che questo tratto era collegato alla sua storia familiare.

F è la seconda di quattro figli. Vive da sola dall’età di 26 anni. Si sostiene in gran parte grazie ai contributi di suo padre che continua a mandarle un assegno mensile, controllando in questo modo i suoi guadagni e le sue spese.

È stata una vera sfida comprendere accuratamente la storia di F. All’inizio saltava le sedute o arrivava in ritardo. Voleva essere riconosciuta come “fantasma”, cioè sparire senza nemmeno una parola o una spiegazione. A volte diceva che aveva intenzione di venire, ma quando si avvicinava il momento non era in grado di farlo. Sembrava che nel suo essere assente trasparisse anche una qualche violenza, ma senza alcuna consapevolezza di tutto ciò.

Dopo un anno cominciai a parlare di cosa provavo rispetto a questo atteggiamento, in modo da comprenderlo insieme, in rapporto alla sua storia personale. Di seguito, per via del legame terapeutico con me, F divenne capace di collegare questi eventi alle proprie esperienze infantili, contro le quali si difendeva: una madre emotivamente instabile e un padre con tratti psicopatici e pesantemente giudicante, che la rendevano oggetto dei bisogni infantili di entrambi i genitori. Confusa e incapace di affermarsi veramente, F non poteva comprendere come mai “non riuscisse a combinare quasi niente” (come eco interiore della severità paterna e dell’ambizione alla perfezione di sua madre).

Manipolandola con i soldi, suo padre continuava a sminuirla. Sua madre invece aveva difficoltà a mantenere un contatto stabile con lei; oscillava tra la fusione e l’abbandono totale, incapace di comprendere i cambiamenti da uno stato all’altro. Quando da adulta F comincia a mettere in discussione le dinamiche familiari, il silenzio tombale di una complicità inattaccabile ricade su di lei, rendendola la pecora nera della famiglia. E tutto ciò accade nonostante i conflitti sotto gli occhi di tutti: suo padre, per esempio, ha una storia con la domestica che lavora per loro da molto tempo e vive nella stessa casa.

Suppongo che la storia personale di F presenti elementi di una personalità borderline, lasciandola con risorse insufficienti per affrontare la sua lotta interiore tra l’ansia della solitudine e la difficoltà di stabilire contatti. L’intimità di un legame di attaccamento equilibrato e sicuro su cui creare un sé, le sembra un’esperienza estranea.

 

Alcune righe sulla terapia

Quando abbiamo iniziato il lavoro col corpo, F sosteneva di percepirlo come non abitato. Sentiva che la faceva vergognare, e che l’avrebbe esposta a giudizi pesanti. Le mie proposte inizialmente miravano ad aiutarla a stabilire un contatto consapevole col proprio corpo, abitandolo attraverso il respiro. Scopriva che la sfera era affidabile e sembrava che la aiutasse a proteggerla da me (ovvero da tratti dei suoi genitori proiettati su di me). La sfera le permetteva di porre il confine di cui aveva tanto bisogno, e che non era in grado di stabilire autonomamente. Sulle ginocchia dietro la sfera, col petto in contatto con essa, poteva respirare e nascondere il corpo dietro il pallone, in modo che ci fosse “qualcosa” tra lei e me (vedi allegato, fig.11).

Dunque un confine che le permettesse di differenziarsi. Ripetendo queste esperienza, iniziò a riconoscersi nel proprio respiro: l’aria si bloccava nella sua gola, sconnettendo la testa dal resto del corpo. Non poteva percepire le pelvi né le gambe. Sentiva che era sconnessa nei movimenti, un fatto evidente. Entrambi ci rendevamo conto delle sue difficoltà a stabilire un contatto con gli occhi, e quanto nello stesso tempo stesse a disagio ad occhi chiusi. Attraverso questi vissuti emergenti, potevamo gradualmente costruire un’esperienza di sé basata su una forma che le ho offerto e che sempre di più era in grado di adottare.

Con l’accelerarsi di questo processo, riusciva a salire sulla sfera in una posizione che precedentemente abbiamo chiamato “flessione”. Ora c’era “più corpo”, e la sfera forniva una base di sicurezza (vedi allegato, fig. 1).

Gli esercizi inizialmente erano pensati per farle percepire il peso del corpo, le aree che erano e che non erano in contatto con la sfera, il feedback del pallone al gesto del suo respiro, come si sentiva sostenuta e come riusciva a muoversi con la spinta dei piedi e delle mani. Io partecipavo mantenendo una certa distanza da lei o toccandola delicatamente per rafforzare il suo grounding, o per aumentare l’esperienza di varie parti del suo corpo. Sia le sue spinte che il contatto con la sfera e con me miravano alla creazione di confini più precisi e a rafforzare il suo grounding.

Ora F era in grado di trovare alcune risposte; le piaceva esserci, sentirsi sostenuta dalla sfera. Ballava con la sfera e l’avrebbe lasciata solo quando ne avrebbe avuto abbastanza. Sapeva prendere decisioni, come chiedermi di lavorare con la sfera, iniziare o terminare un contatto, cose che non erano mai successe con sua madre.

Gradualmente si rafforzava il legame tra lei, la sfera e me. Gradualmente e pazientemente diventavo la base della sua sicurezza. Un momento importante del processo si verificò quando, flessa sulla sfera con me accanto, dondolando sul pallone, la invitai a tenere un contatto oculare con me in qualsiasi momento volesse e potesse farlo. F rimase commossa, sorpresa di saperlo fare. Diceva di non ricordare di essere stata mai guardata in questo modo. Descrisse il mio sguardo come dolce, caldo e “presente”; non sapendo usare una terminologia più precisa (e forse le parole non esistevano nemmeno, trattandosi di un’esperienza primaria). Ovviamente cercava di rendere l’idea di non sentirsi spinta o invasa. La calmava anziché suscitare ansia, come succedeva ogni qualvolta altre persone la guardavano. Tale ansia spesso la faceva sentire inadeguata nelle relazioni e lavorava duramente per non ripetere lo stigma della sua famiglia che le attribuiva la responsabilità pesante di “rovinare tutto”.

L’esperienza di poter stare nella relazione rimanendo calma, differenziata e in grado di autoregolarsi, rappresentava l’esperienza inaugurale di sentire che lo stesso sarebbe potuto accadere in altre relazioni attuali, con le risorse di cui disponeva da adulta.

La creazione di fiducia e sicurezza nel nostro rapporto era il primo passo per esplorare la sua piena capacità di regolare e sostenere se stessa. La sfera offriva un posto sicuro lungo questa strada. Recentemente è arrivata ad una seduta celebrando i due anni della terapia e grata per l’aiuto che le ho dato per andare avanti. Sottolineo questo perché mi sembra che emozioni di questo genere l’abbiano aiutata a guarire dal precedente modello di rapporti in cui prevaleva il senso di inadeguatezza, di essere in debito e di sentirsi insufficiente.

Attualmente lavoriamo sulla sua capacità di darsi sostegno. In questo periodo, l’holding della sfera è meno necessario; riesce invece a stare sul pallone e ad attivare le gambe e il suo centro rimbalzando su di essa (vedi fig. 4). Un’esperienza recente che stiamo ancora esplorando rappresenta l’alzarsi dal pallone, osservando l’eco sensoriale ed emozionale provocato da questo atto, e il senso di ciò in relazione alla sua storia personale.

Oggi F può gestire i propri soldi e vive con un partner stabile. Mi sembra che il grande contributo della sfera alla terapia di F sia consistito soprattutto nella creazione di fiducia tra di noi. La sfera ha facilitato la creazione di un legame, lasciando spazio alla nostra creatività per scoprire come scrivere nuove righe nel presente lasciando indietro la sua storia, per guadagnarsi in questo modo una specie di paradiso.

 

Conclusione

Come abbiamo detto precedentemente, è la riflessione sulla nostra esperienza a spingerci alla concettualizzazione ciò che facciamo, e come lo facciamo. Nella nostra pratica realizziamo delle connessioni e abbiamo degli insight che ci invitano a trovare interlocutori in un dialogo interdisciplinare, in modo da elaborare lo scopo storico e sociale della nostra prassi bioenergetica.

Siamo arrivate alla conclusione che lo scopo del terapeuta è aiutare i pazienti a prendersi creativamente cura di sé e del mondo in cui vivono. Secondo noi ciò richiede un’analisi bioenergetica viva e in movimento. Abbiamo perciò la responsabilità di continuare a riflettere e a creare spazi sicuri per esplorare, riflettere e concettualizzare la nostra prassi, in modo da trasmettere ciò che appartiene al mondo dell’esperienza, proprio come una volta hanno fatto i teorici che rappresentano il nostro modello.

 

Allegato

Figura 1: Flessione. Piedi e mani sul terreno. Il resto del corpo abbandona il peso sulla sfera.

 Figura 2: Grounding con una sfera con un diametro di 80 cm. come sostegno della schiena contro il muro.


Figura 3: Le mani spingono su una sfera di 50 cm. al petto.

 

Figura 4: Stare seduti su un pallone di 80 cm. Rimbalzare partendo dalla pianta del piede, spingendo sul suolo, utilizzando il centro della sfera come sostengo, e sporgendo la sommità dalla testa verso il soffitto.

Figura 5: Tenere una sfera di 50 o di 80 cm., secondo la carica desiderata. Stare sdraiati con la sfera tra le gambe. Per attivare il tono muscolare, spingere leggermente con i muscoli degli adduttori verso il centro del pallone, facendo attenzione a non bloccare le ginocchia.

Figura 6: Il terapeuta trasferisce il suo peso con una sfera semi-gonfia di 50 cm. La persona che riceve il peso sta sdraiata su una superficie comoda, ma non troppo morbida.

Figura 7: La pianta del piede spinge un pallone di 80 cm. contro il muro.

Figura 8: Grounding con una sfera semi-gonfia messa tra le pelvi e l’addome, come se fosse un grembiule.

Figura 9: Stare sdraiati con una sfera di 20 cm. sotto le vertebre cervicali.

Figura 10: “Calciare” centro una sfera di 80 cm. messa al muro.

Fig. 11: Inginocchiarsi dietro a una sfera di 80 cm. con il petto appoggiato e la testa che ricade sul lato.

 

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Note

[1]
              [1] Vincitrici del premio Youth Award for Clinical Work dell’Iiba, in occasione del Convegno di Toronto del 2017.

[2]
              [2] Il nostro lavoro con le sfere è convalidato dalla Escuela di Esferobalones, diretto da Anabella Lozano. http://www.esferobalones.com/

[3]
                   [3] Secondo il suo precursore Tomas Hanna, la Somatic Education è un approccio olistico centrato sul corpo, per aiutare le persone a raggiungere un senso di interezza, trasformando se stessi attraverso il movimento e pratiche di sensibilizzazione atte a creare un senso di benessere psico-corporeo.

[4]
              [4] In analisi bioenergetica, tali qualità sono: ritmo, sincronizzazione, sostegno, sintonizzazione affettiva, regolazione di stati sensoriali ed emozionali, configurazione di esperienze sensorie ed emozionali, rappresentazione e riparazione (Tonella, 2011).